Simona Paiano e Renato Falomo, astronomi all’Inaf di Padova, autori assieme ad Aldo Treves e a Riccardo Scarpa della misura della distanza della sorgente del neutrino cosmico. Crediti: Inaf

Tutto parte da un bagliore blu nelle profondità dei ghiacci antartici. Un bagliore blu appena percettibile, registrato dai sensori dell’esperimento IceCube – un chilometro cubo di rivelatori, posti a una profondità fra i 1450 e i 2450 metri sotto la crosta del Polo Sud – alle 20:54:30 e 430 millisecondi tempo universale del 22 settembre 2017. A produrre quel bagliore, una cascata di particelle innescata dal passaggio di un muone prodotto a sua volta dall’arrivo di un neutrino. Un singolo neutrino ad altissima energia. Un evento “Ehe”, lo definiscono i fisici, dalle iniziali di extremely high energy. Intercettare un neutrino a energia così elevata non è cosa da tutti i giorni, anzi: è un evento talmente raro che ad alcuni di questi neutrini è stato addirittura assegnato un nome proprio – Bert, Ernie e Big Bird, come i personaggi dei Muppet. Ed è un evento di estremo interesse per gli astrofisici, perché si tratta di neutrini che provengono da lontano, da molto lontano: hanno origine al di fuori della nostra galassia. Neutrini cosmici.

Il neutrino del quale stiamo parlando ancora un nome non ce l’ha, viene identificato con un codice derivato dalla data della rivelazione: IceCube-170922A. Ma è lui quello che passerà alla storia. È infatti il primo, e a oggi l’unico, neutrino cosmico per il quale sia stata individuata la cosiddetta controparte elettromagnetica: un’emissione gamma proveniente dalla remota galassia a nucleo attivo Txs 0506+056. Un blazar, per la precisione un oggetto di tipo BL Lac. Ma remota quanto? A scoprire per primo al mondo quest’informazione cruciale – illustrata in un articolo pubblicato già a febbraio 2018 su ApJ Letters – è stato un team di quattro astronomi italiani guidato da Simona Paiano dell’Inaf di Padova.

Trentaquattrenne di Vignacastrisi, un paese in provincia di Lecce, Paiano ha vissuto a Milano fino a quando non è andata a studiare astronomia all’università di Padova, città dove si è laureata, ha preso il dottorato e dove oggi lavora come ricercatrice postdoc all’Osservatorio astronomico dell’Inaf. Ed è lì che l’abbiamo raggiunta per scoprire la storia di questo eccezionale neutrino e per capire come – battendo tutti sul tempo – lei e i suoi colleghi siano riusciti a misurare la distanza percorsa dal luogo d’origine, il blazar Txs 0506+056.

Ecco, Paiano, a proposito del blazar: come facevate a sapere che era quello, o comunque che ci fossero buone probabilità che fosse proprio lì, il luogo d’origine? E che era in quella direzione che dovevate puntare il telescopio?

«È un’informazione che abbiamo ottenuto grazie a telegrammi astronomici online, detti Atel, che sono circolati dopo la detection del neutrino da parte di IceCube».

La croce indica la regione di emissione del neutrino, situata in direzione della costellazione di Orione. Crediti: Iac

Il 22 settembre 2017, dunque, c’è stata questa detection, questa rivelazione. I telegrammi, quando sono usciti? E chi li ha scritti?

«Il primo è stato Erik Blaufuss, per conto della collaborazione IceCube, ma il nome della sorgente è apparso per la prima volta nell’Atel del telescopio spaziale per raggi gamma Fermi»

Sempre in autunno?

«Sì, a fine settembre Fermi ha indicato il nome della sorgente. Una sorgente già nota: si sapeva che era un blazar, poi si scoprirà essere un BL Lac.  Comunque è una sorgente che era già nel catalogo di Fermi, già vista ai raggi gamma».

Dunque Txs 0506+056 è il “numero di targa” che già gli aveva dato Fermi?

«Quasi. In astrofisica ogni sorgente ha più nomi. Txs 0506+056 è il nome della controparte radio di un oggetto che, nel catalogo di Fermi, si chiama invece 3Fgl J0509+0541»

Comunque dal catalogo di Fermi già si sapeva che c’era, dov’era e, grosso modo, che tipo di sorgente era – un blazar. Cos’è che non si conosceva?

«Non si conosceva la distanza, che per oggetti extragalattici significa misurare il redshift».

Perché è così importante conoscere la distanza?

«Perché è proprio grazie alla distanza che si riescono a determinare i parametri fisici di un oggetto, come per esempio la luminosità, e quindi mettere dei vincoli sui modelli di emissione. Conoscere la distanza degli oggetti astronomici è sempre di fondamentale importanza, e in questo caso era di particolare interesse, data la concomitanza con la prima rivelazione di un neutrino extragalattico da parte di IceCube».

Quindi vi siete detti: qui dobbiamo capire a che distanza si trova. Immagino però che questa intuizione non l’abbiate avuta solo voi, no? Ci saranno molti team di astronomi, nel mondo, che si sono posti lo stesso obiettivo…

«Certamente. Molti altri telescopi ottici – anche di dimensioni paragonabili a quello usato da noi, il Gran Telescopio Canarias da 10.4 metri di diametro – avevano puntato la sorgente, cercando di determinarne il redshift. Nessuno di questi, però, è riuscito nell’intento».

Cosa c’è di così difficile nel misurare la distanza di un oggetto di questo genere? Leggiamo in continuazione dichiarazioni come “vista una galassia a tre miliardi di anni luce”… Sembrerebbe un gioco da ragazzi.

«Purtroppo non è così per i blazar, e in particolare per quelli di tipo BL Lac. Si tratta infatti di sorgenti che mancano di forti righe di emissione e/o assorbimento: quelle righe che permettono normalmente di misurare il redshift».

La cupola del Gran Telescopio Canarias, sull’isola di La Palma, alle Canarie. Crediti: Iac

Niente righe, eppure voi ci siete riusciti. Come avete fatto?

 «Le righe, in realtà, ci sono. Ma sono estremamente deboli. Per poterle riconoscere, occorrono due cose: dati di alta qualità e una tecnica di analisi adeguata, in modo da distinguerle da altre righe dovute all’atmosfera terrestre.».

Righe spettrali relative a precisi elementi chimici, immagino. Quali, esattamente?

«Siamo riusciti a vedere le righe d’emissione dell’ossigeno (OII e OIII) e quella dell’azoto. Questo nel corso di una quindicina di ore d’osservazioni, compiute tra fine novembre 2017 e fine gennaio 2018».

Ricapitolando: servivano uno strumento molto sensibile e un occhio molto allenato. Per lo strumento non avevate problemi, disponendo di un gioiello come il GranTeCan. Ma l’occhio allenato come si spiega? Lei è molto giovane…

«Forse sì, ma in questi anni ho lavorato duramente e ho avuto dei bravi maestri, dei bravi “allenatori”. Faccio questo lavoro già da tre anni, e ho pubblicato vari lavori su questi temi. Ma soprattutto non sono sola, c’è anche tutta l’expertise del mio gruppo: Renato Falomo, Aldo Treves e Riccardo Scarpa. Così, alla fine, siamo riusciti a mettere insieme l’esperienza e le competenze giuste per questo tipo di misura».

E li avete fregati tutti. Primi al mondo a misurare questa distanza. A proposito: quant’è?

«Il redshift è 0.3365: assumendo i paramenti cosmologici più recenti, corrisponde a una distanza di luminosità di circa 5.5 miliardi di anni luce».


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