Un team guidato dal Massachusetts Institute of Technology ha sviluppato un metodo per estrarre il debole segnale delle onde gravitazionali primordiali dai dati dei rivelatori di onde gravitazionali di prossima generazione. Si tratta di un’alternativa alla ricerca delle increspature nello spaziotempo basata sul fondo cosmico a microonde. Con un commento di Daniela Paoletti dell’Inaf
Si pensa che le prime onde gravitazionali risalgano ai momenti immediatamente successivi al Big Bang. Come prodotto delle fluttuazioni quantistiche nella zuppa primordiale, queste prime increspature che si sono venute a formare nel tessuto dello spaziotempo sono state rapidamente amplificate dai processi inflazionistici che hanno spinto l’universo a espandersi in modo esplosivo. Queste onde gravitazionali primordiali, prodotte quasi 13.8 miliardi di anni fa, riecheggiano ancora oggi nell’universo ma sono annegate da onde gravitazionali prodotte da eventi più recenti, come la collisione di buchi neri e stelle di neutroni.
Ora, un team guidato da Sylvia Biscoveanu del Kavli Institute for Astrophysics and Space Research del Massachusetts Institute of Technology (Mit) ha sviluppato un nuovo metodo per estrarre i segnali molto deboli delle increspature primordiali dai dati forniti dai rivelatori di onde gravitazionali. I risultati sono stati pubblicati questa settimana su Physical Review Letters.
Le onde gravitazionali vengono registrate quasi quotidianamente dagli interferometri Ligo e Virgo, ma i segnali gravitazionali primordiali sono di diversi ordini di grandezza più deboli di ciò che questi rivelatori sono in grado di registrare.
Si prevede che la prossima generazione di rivelatori sarà abbastanza sensibile da captare queste prime increspature e già nel prossimo decennio, con l’arrivo di strumenti più sensibili, il nuovo metodo potrebbe essere applicato per scovare le tracce nascoste delle prime onde gravitazionali dell’universo. Il modello e le proprietà di queste onde primordiali potrebbero quindi rivelare indizi sull’universo primordiale, come le condizioni che hanno guidato l’inflazione.
«Se la forza del segnale primordiale rientra nella gamma di ciò che i rivelatori di nuova generazione potranno rilevare – come sembra – allora si tratterà più o meno di “girare la manovella” sui dati, usando questo metodo che abbiamo sviluppato», dice Biscoveanu. «Queste onde gravitazionali primordiali potranno quindi raccontarci qualcosa sui processi nell’universo primordiale, che sono altrimenti impossibili da sondare».
Finora, la caccia alle onde gravitazionali primordiali si è concentrata principalmente sul fondo cosmico a microonde (Cmb), che si pensa sia la radiazione fossile del Big Bang. Oggi, questa radiazione permea l’universo ed è rilevabile nella banda delle microonde dello spettro elettromagnetico. Gli scienziati ritengono che quando si sono formate le onde gravitazionali primordiali, hanno lasciato un’impronta nel Cmb sotto forma di modi B, un particolare tipo di polarizzazione. I fisici hanno cercato le tracce dei modi B in vari modi. Uno di questi è stato il Bicep Array, una serie di esperimenti tra cui Bicep2 con il quale, nel 2014, gli scienziati ritenevano di averli trovati. Tuttavia, il segnale si è rivelato essere dovuto alla polvere galattica.
Mentre alcuni scienziati continuano a cercare onde gravitazionali primordiali nel Cmb, altri stanno cercando le increspature direttamente nei dati delle onde gravitazionali.
L’idea alla base è quella di provare a sottrarre il segnale astrofisico in primo piano (foreground), ossia qualsiasi segnale di onde gravitazionali che proviene da sorgenti astrofisiche, come buchi neri e stelle di neutroni che si stanno fondendo, oppure da supernove che esplodono. Solo dopo aver sottratto questo primo piano astrofisico, i fisici possono sperare di ottenere una stima dei segnali più silenti – non astrofisici – che potrebbero contenere onde gravitazionali primordiali.
Il problema con questi metodi è che il primo piano astrofisico contiene anche segnali molto deboli – ad esempio quelli generati da fusioni più lontane – che sono troppo deboli da discernere e difficili da stimare nella sottrazione finale. «L’analogia che mi piace fare è che se sei a un concerto rock, lo sfondo primordiale è come il ronzio delle luci sul palco e il primo piano astrofisico è paragonabile alle conversazioni di tutte le persone intorno a te», spiega Biscoveanu. «Puoi sottrarre le singole conversazioni fino a una certa distanza, ma poi quelle che sono molto lontane o veramente deboli continuano a verificarsi, ma non riesci a distinguerle. Quando andrai a misurare il volume del ronzio delle luci del palco, ti ritroverai la contaminazione di queste deboli conversazioni di cui non puoi liberarti, perché non riesci a sottrarle».
Nel loro nuovo approccio, i ricercatori hanno fatto affidamento su un modello per descrivere le “conversazioni” più ovvie del primo piano astrofisico. Il modello considera i segnali delle onde gravitazionali prodotte dalla fusione di oggetti astrofisici di diverse masse e spin. Il team lo ha quindi utilizzato per creare dati simulati di onde gravitazionali generate da sorgenti astrofisiche, sia forti che deboli (come la fusione di buchi neri). Poi ha cercato di caratterizzare ogni segnale astrofisico presente in questi dati simulati, ad esempio per identificare le masse e gli spin dei buchi neri binari. Questi parametri sono più facili da identificare per i segnali più forti e solo debolmente vincolati per i segnali più deboli. Mentre i metodi precedenti utilizzano solo un best guess (un’ipotesi considerata migliore) per i parametri di ciascun segnale, al fine di sottrarlo dai dati, il nuovo metodo tiene conto dell’incertezza in ogni caratterizzazione del modello ed è quindi in grado di discernere la presenza di segnali più deboli, anche se non sono ben caratterizzati. Biscoveanu afferma che questa capacità di quantificare l’incertezza aiuta i ricercatori a evitare qualsiasi bias nella misurazione dello sfondo primordiale.
Una volta identificati questi modelli distinti e non casuali nei dati delle onde gravitazionali, alla simulazione sono stati introdotti anche segnali di onde gravitazionali primordiali casuali, oltreché il rumore strumentale specifico per ciascun rivelatore.
Si ritiene che le onde gravitazionali primordiali permeino l’universo come un ronzio diffuso e persistente, che i ricercatori hanno ipotizzato dovrebbe avere lo stesso aspetto – e quindi essere correlato – in due rivelatori qualsiasi. Al contrario, il resto del rumore casuale ricevuto dovrebbe essere specifico per quel rivelatore e non correlato ad altri rivelatori. Ad esempio, il rumore generato dal traffico nelle vicinanze dovrebbe essere diverso a seconda della posizione di un determinato rivelatore. Confrontando i dati di due rivelatori, dopo aver tenuto conto delle sorgenti astrofisiche dipendenti dal modello, potrebbero essere individuati i parametri dello sfondo primordiale.
I ricercatori hanno testato il nuovo metodo simulando 400 secondi di dati di onde gravitazionali, che hanno riempito con onde gravitazionali simulate che rappresentano fonti astrofisiche, come la fusione di buchi neri. In tutti i dati hanno anche inserito un segnale, simile al ronzio persistente di un’onda gravitazionale primordiale. Hanno quindi diviso questi dati in segmenti di quattro secondi e applicato il loro metodo a ciascun segmento, per vedere se riuscivano a identificare con precisione sia eventuali fusioni di buchi neri, sia il modello dell’onda primordiale simulata. Dopo aver analizzato ogni segmento di dati in molte sessioni di simulazione e in condizioni iniziali variabili, sono riusciti a estrarre lo sfondo primordiale in essi sepolto. «Siamo stati in grado di adattare contemporaneamente sia il primo piano astrofisico che lo sfondo, in modo che il segnale di fondo che riceviamo non è risultato contaminato dal primo piano residuo», conclude la Biscoveanu.
Quando i rivelatori sensibili di nuova generazione saranno disponibili, il nuovo metodo potrà essere utilizzato per correlare e analizzare i dati da due diversi rivelatori, per setacciare il segnale delle onde gravitazionali primordiali. Così, gli scienziati potrebbero riuscire a trovare un filo utile da ricondurre alle condizioni dell’universo primordiale.
«Le onde gravitazionali primordiali sono l’ultima frontiera della cosmologia, quanto di più lontano possiamo guardare e sentire nel tempo», spiega a Media Inaf Daniela Paoletti, ricercatrice dell’Inaf Oas di Bologna, esperta di fondo cosmico a microonde. «Ma sono un’eco debolissima sommersa da un universo chiassoso e luminoso. La precisione degli esperimenti futuri è tale da poter potenzialmente sentire attraverso questo caos. Questo lavoro dimostra come, sviluppando tecniche di analisi dati dedicate, sia veramente possibile riconoscere la voce più debole in mezzo al coro.
Il metodo sviluppato sfrutta un concetto già utilizzato in altri settori, come nella radiazione di fondo cosmico a microonde, ed è studiato per l’elevato grado di complessità per la rivelazione di un segnale tanto debole in un foreground così complesso. La tecnica proposta ha uno dei maggiori punti di forza nella sua flessibilità. Si valida il metodo con analisi semplificate ma poi permette di ampliarlo includendo diverse incertezze sia sui modelli teorici che sullo strumento, con l’obiettivo di avere un metodo completo da usare sui dati reali.
La sfida più grande forse saranno le risorse computazionali che richiederà tale analisi ma nei prossimi dieci anni entreremo nell’era dell’exascale computing per cui non sarà più un problema. È entusiasmante vedere come gli sforzi per rivelare la presenza di onde gravitazionali primordiali seppur utilizzando due sensi diversi – in un certo senso noi osserviamo il fondo cosmico a microonde e sentiamo le onde gravitazionali – stiano procedendo in modo analogo su binari paralleli per infrangere quest’ultima frontiera».
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Letters l’articolo “Measuring the Primordial Gravitational-Wave Background in the Presence of Astrophysical Foregrounds” di Sylvia Biscoveanu, Colm Talbot, Eric Thrane e Rory Smith
Leggi l’articolo originale su MEDIA INAF.