L’astronomia gravitazionale e multimessenger è già realtà e i nuovi studi in corso possono fare luce su alcuni misteri ancora irrisolti sulla natura dei buchi neri. Esistono i buchi neri primordiali? Come si sono formati? Qual è stato il ruolo delle prime stelle?
Se fino a qualche anno fa le onde gravitazionali erano ancora avvolte da un alone di teoria e mistero, dalla loro prima rilevazione (il 14 settembre 2015) a oggi i ricercatori hanno fatto molta strada, fino ad arrivare alla cosiddetta era dell’astronomia gravitazionale e multimessaggero. Ma a cosa servono davvero queste increspature del “tessuto” dello spaziotempo predette da Einstein? Ce lo chiediamo tutti, e di recente una coppia di scienziati ha provato a rispondere: è possibile confermare l’esistenza (o meno) di un certo tipo di buchi neri analizzando il comportamento delle onde gravitazionali.
Secondo la teoria più acclarata, i buchi neri si sarebbero formati dalle supernove, ma se questo fosse vero i buchi neri non potrebbero essere nati prima della formazione delle stelle. Savvas Koushiappas (Brown University) e Abraham Loeb (Harvard University) hanno trovato un modo, però, per mettere la loro idea alla prova calcolando la prima epoca in cui i buchi neri barionici – quelli fatti della materia che vediamo nelle stelle e nei pianeti – possano essersi formati.
«Sappiamo molto bene che i buchi neri possono essersi formati dal crollo di grandi stelle, o come abbiamo visto di recente, dalla fusione di due stelle di neutroni», ha detto Koushiappas, «ma è stato ipotizzato che potessero esserci buchi neri anche prima che le stelle si formassero». Secondo i due ricercatori, poco dopo il Big Bang le fluttuazioni quantistiche portarono alla distribuzione della materia che oggi osserviamo nell’Universo in espansione. I due suggeriscono che alcune di queste fluttuazioni di densità potrebbero essere state abbastanza importanti da provocare la nascita dei buchi neri in tutto l’Universo. La teoria dei cosiddetti buchi neri primordiali è stata avanzata per la prima volta all’inizio degli anni Settanta da Stephen Hawking e dai suoi collaboratori, ma non sono mai stati rilevati (in realtà non è affatto chiaro se esistano).
Allora a cosa servono le onde gravitazionali? Strumenti futuri (o già esistenti come Ligo e Virgo) che indagano sulle “onde di Einstein” saranno in grado di “guardare” indietro nel tempo fino a epoche precedenti la formazione delle prima stelle: se fosse possibile assistere alla fusione di due buchi neri già a quei tempi, allora verrebbe confermata la teoria secondo la quale questi oggetti primordiali non sono di origine stellare.
Koushiappas e Loeb hanno calcolato la distanza spaziotemporale alla quale le fusioni tra i buchi neri non dovrebbero più essere rilevate assumendo solo l’origine stellare. Questo “distanza” si chiama in gergo tecnico redshift (letteralmente “spostamento verso il rosso”) e non è altro che l’allungamento della lunghezza d’onda della luce associata all’espansione dell’Universo. Più un evento è lontano nel tempo, più è grande il redshift. I due scienziati hanno dimostrato nel loro studio che a un redshift di 40 (cioè 65 milioni di anni dopo il Big Bang) gli eventi di fusione dovrebbero essere rilevati con un tasso non superiore a uno all’anno, ipotizzando l’origine stellare dei buchi neri. Con redshift superiori a 40, gli eventi dovrebbero scomparire del tutto. Osservare a una distanza pari a un redshift di 40 dovrebbe essere alla portata di diversi esperimenti gravitazionali attualmente in fase di progettazione: se questi strumenti dovessero rilevare eventi di fusione tra due buchi neri oltre quella distanza, allora la teoria sui buchi neri primordiali sarebbe confermata.
L’unica spiegazione alternativa rimarrebbe l’ipotesi di un Universo non-gaussiano, notano gli autori, ma questo implicherebbe il ricorso a un a nuova fisica per rendere contro delle fluttuazioni primordiali.
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Source: Buchi neri primordiali e onde gravitazionali | MEDIA INAF