Fosfina e Venere: non è ancora detta l’ultima parola

Prosegue, a colpi di paper, il dibattito sulla presenza o meno della fosfina – rara molecola che sulla Terra viene prodotta da fenomeni industriali ma anche da alcuni batteri – nelle nubi della nostra vicina planetaria, Venere. Diversi team scientifici hanno contestato alcune delle procedure usate, mettendo in dubbio la solidità del risultato e riscontrando peraltro delle inconsistenze nella calibrazione delle osservazioni Alma. Nel frattempo, dati corretti alla mano, il team che aveva annunciato la scoperta ha ridimensionato le proprie conclusioni, pur senza fare dietro-front completo. Un’avvincente saga scientifica che, forse, si risolverà solo il prossimo anno con nuove osservazioni

Immagine composita di Venere ottenuta con diversi scatti dalla sonda spaziale giapponese Akatsuki. Crediti: Jaxa / Isas / Darts / Damia Bouic

L’annuncio della scoperta di fosfina nelle nubi di Venere, lo scorso settembre, ha causato un certo trambusto, qui sul nostro pianeta. L’inatteso risultato ha destato stupore e rinnovato interesse nella comunità scientifica per la prospettiva affascinante di una possibile spiegazione astrobiologica, ma anche molte perplessità, come già delineato in un’analisi pubblicata a fine settembre sulle nostre pagine.

Secondo i primi risultati, apparsi su Nature Astronomy a firma di un team guidato da Jane Greaves dell’Università di Cardiff, Regno Unito, la molecola sarebbe stata rilevata in due osservazioni condotte a lunghezze d’onda sub-millimetriche (0.3-3 Thz), prima con il James Clerk Maxwell Telescope (Jcmt) nel 2017, e poi a risoluzione più alta con Alma, l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array, nel 2019. Ma molto è cambiato dall’annuncio iniziale: in pieno spirito open science, il gruppo di ricerca ha messo a disposizione di tutti sia i dati raccolti che le procedure usate per elaborarli, permettendo a chiunque di replicare i propri risultati. E non sono mancate, nelle settimane successive, le risposte da parte di colleghi e colleghe in giro per il mondo.

Tutto rumore e niente fosfina?

Uno studio guidato da Ignas Snellen dell’Università di Leiden, Paesi Bassi, apparso come preprint in ottobre e pubblicato come letter sulla rivista Astronomy & Astrophysics la scorsa settimana, dopo aver analizzato nuovamente i dati Alma ha sollevato forti dubbi sulla presunta scoperta. In particolare, questo lavoro ha riprodotto le stesse procedure usate nell’analisi originaria, rivelando che la riga di assorbimento attribuita alla fosfina potrebbe essere in realtà un artefatto della procedura stessa utilizzata per trattare i dati e il rumore relativo.

Un gruppo di antenne di Alma durante l’osservazione del cielo notturno. Crediti: Eso/Y. Beletsky

«Quando ho letto l’articolo attentamente, ero convinto che avessero fatto questa parte dell’analisi in modo sbagliato», spiega Snellen a Media Inaf. «E infatti, era sbagliata».

Venere è una sorgente molto luminosa, il che rende la ricerca di eventuali righe di assorbimento causate da gas presenti in tracce nella sua atmosfera molto complessa. Di solito i dati di Alma vengono processati da una pipeline automatica, dopo di che vengono consegnati ai principal investigator delle osservazioni per procedere all’analisi, ma in questo caso, per le complicazioni dovute alla forte luminosità della sorgente, la calibrazione era stata fatta manualmente.

«Nelle osservazioni radio, serve sempre una sorgente relativamente brillante, stabile e ben nota per calibrare le osservazioni – un quasar, per esempio», ci spiega Lizette Guzman Ramirez dell’Università di Leiden, coautrice con Snellen e collaboratori dell’articolo con la nuova analisi dei dati Alma. «In questo caso, per la calibrazione è stato usato Callisto, uno dei satelliti di Giove. Ma poiché Venere è molto più brillante, ogni piccola oscillazione presente in Callisto viene amplificata enormemente su Venere».

Per rimuovere queste “increspature”, nell’articolo iniziale si era scelto di tenere solo le osservazioni ottenute da coppie di telescopi nell’array di Alma che si trovano a distanze di 33 metri o superiori, tagliando quelle ottenute da telescopi con separazione inferiore.

Lo spettro risultante da 4 diverse selezioni della baseline di Alma (distanziati verticalmente per chiarezza). Dall’alto al basso: tutti i dati; solo dati da coppie di antenne con separazione maggiore di 20 m; maggiore di 33 m; maggiore di 50 m. Solo lo spettro basato sui dati con separazione superiore a 33 m mostra un decremento al centro con rapporto segnale-rumore di circa 2. Crediti: Snellen et al., 2020

«È una scelta ragionevole», commenta Guzman Ramirez. «Ma ripetendo questi passi ci siamo accorti che, a seconda della separazione a cui veniva operato il taglio il risultato aveva un aspetto diverso. Questa è stata la prima indicazione che potesse trattarsi di rumore, non di un segnale vero».

Proseguendo con l’analisi dell’articolo iniziale, che includeva una modellizzazione del rumore utilizzando un polinomio di dodicesimo grado – ma in un intervallo di frequenze che esclude la discussa riga della fosfina – Snellen, Guzman Ramirez e collaboratori hanno trovato sì la stessa riga di assorbimento attribuita alla fosfina, con lo stesso livello di significatività, i famosi 15 sigma. Ma, colpo di scena, effettuando questa procedura di righe significative ne trovano almeno altre cinque – tre di assorbimento e due di emissione, che però non corrispondono a nessuna transizione nota. Secondo il team, si tratta di righe spurie.

«Abbiamo provato a riprodurre i risultati di Greaves quanto possibile, ma è difficile fare esattamente quello che hanno fatto. Però siamo arrivati piuttosto vicino», aggiunge Snellen. «Lo studio originario ha considerato righe spurie solo in due posizioni fisse nello spettro. In queste posizioni, scelte da Greaves, non hanno trovato linee spurie. Ma non hanno guardato altrove».

Lo spettro ottenuto dall’analisi indipendente di Snellen e collaboratori, prima (sinistra) e dopo (destra) la rimozione di un polinomio di terzo grado. Una traccia nei pressi della transizione studiata della fosfina (al centro) è visibile ma, secondo gli autori, sotto la soglia statistica significativa. Crediti: Snellen et al., 2020

Dopo questa valutazione, il team di Snellen ha condotto un’analisi indipendente, utilizzando un polinomio di terzo grado (non dodicesimo) per modellare il rumore. Anche con questo procedimento si ottiene la riga della presunta fosfina, ma questa volta con un livello di significatività di soli 2.5 sigma, e per di più con una forma non gaussiana – ovvero non con la caratteristica forma a campana rovesciata.

«Questa non è la forma di una riga che ci si aspetta dall’assorbimento, ma dal rumore. Quello che vediamo è un effetto sistematico causato da un errore nel fit», continua Guzman Ramirez.

La saga continua

Ma è davvero solo rumore? Come mai queste righe spurie non sono saltate fuori durante l’analisi iniziale? Abbiamo chiesto alla stessa Greaves delucidazioni. «Non è così, ma i dati che hanno contestato adesso sono stati superati», commenta l’astronoma. Già, perché nel frattempo qualcosa è cambiato anche sul fronte dei dati – ci torneremo. «In una delle figure [dell’articolo iniziale, ndr], abbiamo effettivamente fatto un test e non abbiamo trovato righe spurie significative. La differenza è che Snellen et al. non hanno controllato se le “righe” che hanno trovato erano al centro della sezione di test, io credo».

Un altro articolo di risposta, sottoposto a Nature Astronomy nella sezione “Matters Arising” e guidato da Geronimo Villanueva del Nasa Goddard Space Flight Center, aveva sollevato altri dubbi, tra i quali la questione della calibrazione, verso la fine di ottobre. In seguito a queste discussioni, lo staff di Alma ha identificato un problema nei dati: una “increspatura” spuria, risultato delle impostazioni specifiche utilizzate per osservare una sorgente luminosa come Venere, in combinazione con piccoli problemi a livello di software. Seguendo una procedura standard, una volta identificato il problema, i dati sono stati temporaneamente rimossi dall’archivio scientifico di Alma per risolvere la questione, e poco dopo una versione ricalibrata e più accurata dei dati è stata resa disponibile alla comunità astronomica.

I dati di Alma vengono sottoposti a una serie di passaggi per verificarne la qualità (Quality assurance, o Qa – 0, 1 e 2) prima di essere consegnati ai principal investigator. Qualora vengano rilevate complicazioni aggiuntive, è prevista un’ulteriore verifica (Qa3). «Dopo che la Qa3 è stata completata, un membro dello staff Eso ha continuato a fare esperimenti con i dati di Venere come sfida tecnica e ha scoperto che un polinomio di dodicesimo ordine in ampiezza e di quinto ordine in fase funzionava bene come ulteriore auto-calibrazione della banda passante», ci spiega Anita Richards dell’Università di Manchester, coautrice con Greaves del primo paper.

Esempio di uno spettro con presunti segni di fosfina, estratto dalla regione cerchiata super-imposta sull’immagine del continuo. Crediti: Greaves et al. 2020 (arXiv:2011.08176)

Greaves e il suo team hanno dunque ripetuto l’analisi con i nuovi dati, cambiando la procedura di elaborazione, perché i polinomi di ordine superiore per il trattamento del rumore non erano più necessari. I risultati, apparsi a metà novembre in un preprint in risposta all’articolo di Villanueva e collaboratori, mostrano ancora una riga di assorbimento attribuibile alla fosfina, ma adesso con un livello di significatività molto più basso.

«Le righe per me sono convincenti, in quanto appaiono a 5 sigma, e non ci sono più altri “dossi” significativi nella banda passante», afferma Greaves. «La vecchia versione dei dati indicava oltre 7 parti per miliardo di fosfina, facendo una media su tutto il pianeta. Quel valore è ora di circa 1–4 parti per miliardo, con picchi di circa 5–10 parti per miliardo in punti diversi, ma stiamo ancora lavorando su quell’intervallo di numeri».

Greaves e collaboratori hanno pubblicato oggi, venerdì 11 dicembre, una seconda risposta, anche questa all’attenzione della rubrica “Matters Arising” di Nature Astronomy, replicando in modo più dettagliato alle varie obiezioni sollevate nelle scorse settimane. In questo ultimo episodio della saga chiariscono il loro iter di ricerca: la presenza di fosfina su Venere è un’ipotesi a priori che è stata testata applicando una serie di criteri ai dati, e mostrano che la probabilità statistica che questi criteri – che riguardano forma e posizione della riga nello spettro – vengano verificati nel caso di una increspatura random è piuttosto bassa.

«I data products ci sono stati ora forniti dal personale dell’Osservatorio Alma e abbiamo trovato una buona detection di fosfina», sottolinea Greaves. «Poiché non abbiamo svolto questo lavoro per creare i data products, non c’è alcun “bias di conferma” e, naturalmente, altri scienziati possono ottenere gli stessi data products se vogliono confermare i nostri risultati».

Snellen continua a non essere convinto, ma il suo team non ha intenzione di ripetere l’analisi un’altra volta sui nuovi dati ricalibrati. «Adesso sappiamo che il primo segnale è sbagliato. Gli autori riconoscono questo. Quindi non capisco perché continuino a cercare di dimostrare che la loro analisi era corretta», afferma l’astronomo. «Il nostro articolo è ancora importante per dimostrare che hanno sbagliato. Villanueva et al. hanno analizzato i dati processati di nuovo, con la calibrazione corretta, e non vedono niente».

Il James Clerk Maxwell Telescope alle Hawaii

Un’altra letter apparsa nel frattempo, a firma di Mark Thompson della University of Hertfordshire, Regno Unito, e pubblicata a fine novembre su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, infligge un altro colpo ai risultati originari. Ripetendo lo stesso procedimento ma questa volta sui primissimi dati ottenuti dal team di Greaves, quelli del Jcmt, il risultato sembra essere lo stesso: nessuna evidenza significativa di fosfina.

«Il problema fondamentale di questa linea di ricerca è che non puoi mai dimostrare che non c’è alcuna fosfina. Pertanto, questo può essere risolto solo in un modo – ottenendo una misurazione forte e indiscussa di fosfina», prosegue Snellen.

Certo, in mancanza di un ulteriore segnale di conferma si può sempre invocare una possibile variabilità spaziale o temporale, ma così si rischia di non convergere mai. Una storia che ricorda piuttosto da vicino la ricerca di un’altra molecola – il metano su Marte – sulla cui presenza la comunità scientifica non ha ancora raggiunto il consenso.

Dibattendo s’impara

Quelli che a prima vista possono sembrare litigi tra team rivali sono in realtà un elemento fondamentale del processo scientifico, che si articola per sua natura attraverso prove ed errori. Riprodurre i risultati sperimentali in maniera indipendente è uno dei cardini della scienza moderna, non sempre però possibile a causa delle tempistiche della ricerca, e dunque non siamo abituati a vedere così spesso queste dinamiche in azione.

«È un caso davvero affascinante, e la risposta della comunità è anche molto interessante», commenta Guzman Ramirez. Chiaramente, questo processo comporta molto lavoro aggiuntivo. «Ho dovuto lasciare tutto quello che stavo facendo per tre settimane per mostrare che qualcun altro ha sbagliato», fa notare Snellen. «Preferisco investire la mia energia in qualcosa di positivo».

L’ultima parola potrà esser detta, forse, solo dopo aver realizzato un nuovo ciclo di osservazioni di Venere con Alma l’anno prossimo.

«Speriamo di ottenere una nuova osservazione di fosfina con una strategia che utilizzi tutti i miglioramenti nella calibrazione», dice Greaves. «Allora potremo individuare dove ha origine sul pianeta, spero!»

Composizione di immagini di Venere raccolte dalla sonda Akatsuki in ultravioletto (a destra) e da Venus Express nell’infrarosso (a sinistra); l’elaborazione grafica mostra il fenomeno della super rotazione delle nuvole nella parte superiore dell’atmosfera. Crediti: Jaxa ed Esa

Una cosa è certa. Il dibattito in corso sta aprendo nuovi scenari nello studio di Venere e della sua atmosfera.

«Che vengano pubblicati articoli anche di contestazione è normale, fa parte della critica scientifica. È ancor più vero se i risultati sono molto importanti, come in questo caso», commenta Giuseppe Piccioni dell’Inaf di Roma, uno dei principal investigator dello strumento Virtis (Visible and InfraRed Thermal Imaging Spectrometer) sulla missione Venus Express dell’Esa, non coinvolto in nessuno degli studi descritti in precedenza.

Dapprima incuriosito dalla scoperta, poi dissuaso dai primi paper apparsi in risposta, poi di nuovo intrigato alla luce della nuova analisi dei dati, Piccioni racconta a Media Inaf che, anche se si trattasse solo di tracce della molecola queste avrebbero un’importanza fondamentale.

«La fosfina è estremamente reattiva: i meccanismi di distruzione sono vari ed estremamente efficaci», prosegue Piccioni. «Trovare anche solo tracce di fosfina indica una produzione forte».

La presenza della fosfina è nota nei giganti gassosi del Sistema solare, dove le speciali condizioni di pressione e temperatura locali, insieme alla presenza di idrogeno, ne permettono la formazione. Sulla Terra, anche se molto diversi, i meccanismi di produzione sono ben conosciuti: processi industriali e alcuni tipi di batteri che prosperano in ambienti privi di ossigeno. Una possibile presenza su Venere, pianeta terrestre con poco idrogeno, pone il problema di come la molecola si sia formata.

«La detection di fosfina ha scatenato una serie di ricerche volte a spiegarne l’esistenza perché i modelli attuali non ne sono in grado», ci ricorda Alessandra Migliorini, anche lei ricercatrice all’Inaf di Roma, membro del team dello strumento Virtis di Venus Express e non coinvolta negli articoli qui discussi. «Bisogna prima confermare la detection, poi caratterizzarla, e nel frattempo anche identificare modelli che ne possano spiegare la formazione in un’atmosfera con poco idrogeno. Adesso questo lavoro è importante per Venere, ma poi lo sarà anche per gli esopianeti».

Il dibattito è infatti un ottimo banco di prova per studi futuri di esopianeti di tipo terrestre, come super-terre o mini-nettuni, e delle possibili implicazioni che una eventuale osservazione di fosfina nelle loro atmosfere potrebbe avere un giorno. Per il momento – entrambi gli esperti italiani concordano – il punto fondamentale resta la conferma dell’osservazione.

Rappresentazione artistica della sonda Pioneer Venus Multiprobe mentre si avvicina a Venere. Crediti: Nasa/ Paul Hudson

«Servono molte misure», aggiunge Piccioni. «L’attenzione sarà alta per la nuova campagna osservativa con Alma l’anno prossimo, basata su quanto imparato con queste osservazioni. La verità è che è molto difficile fare queste osservazioni da remoto, anche con Alma, uno dei telescopi più potenti». E se provassimo con una missione spaziale? «Dallo spazio, ci vorrebbe una missione che combini osservazioni dell’atmosfera e del suolo, perché la costituzione geologica del suolo di Venere è ancora un po’ incerta», spiega Migliorini.

Al momento, in orbita intorno a Venere c’è solo la missione Akatsuki dell’agenzia spaziale giapponese, ma tra i vari lavori pubblicati in risposta al paper di Greaves e collaboratori c’è anche uno studio che ha rivisitato dati raccolti oltre quarant’anni fa dalla sonda Pioneer Venus 2. La sonda, che nella sua discesa su Venere nel 1978 avrebbe anche attraversato lo strato che ospiterebbe la presunta fosfina, aveva a bordo uno spettrometro di massa – il Large Probe Neutral Mass Spectrometer (Lnms). La nuova analisi di quei dati, guidata da Rakesh Mogul dell’università Cal Poly Pomona, in California, e anch’essa presentata nella sezione “Matters Arising” di Nature Astronomy, rivela la presenza di una molecola con massa simile a quella della fosfina (PH3), in abbondanze compatibili con quelle ricavate inizialmente dai dati di Alma e Jcmt. Purtroppo però questa è poco dissimile dalla massa dell’acido solfidrico (H2S), e anche se l’assenza di alcuni segnali nei dati tenderebbe a escludere questa seconda ipotesi, la prima non si può comunque confermare.

«Forse l’unica missione che potrebbe toglierci ogni dubbio sarebbe un sample return atmosferico da Venere», conclude Piccioni, «un tipo di missione che è stata proposta molte volte in passato e mai selezionata ma che forse potrebbe tornare di moda».

Per saperne di più:

Lrggi l’articolo originale su MEDIA INAF.

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