«Questa è la mia visione del fisico moderno»

Non necessariamente uomo, non necessariamente vecchio, non necessariamente alla lavagna. Così Viviana Acquaviva – professore associato al Cuny Nyc College of Technology e Cuny Graduate Center di New York, dove tiene anche un corso di machine learning per la fisica e l’astronomia, argomento sul quale sta scrivendo un libro per la Princeton University Press – immagina che debba essere un fisico oggi. Wired l’ha annoverata fra le 50 donne che hanno fatto (e fanno) la storia dell’informatica. Media Inaf l’ha intervistata

Viviana Acquaviva, astrofisica, qui ritratta con la figlia, è associate professor al New York City College of Technology (City Tech)

I nomi e le storie di cinquanta donne che hanno fatto – e tutt’ora fanno – la storia dell’informatica, questo l’oggetto di una lista stilata da Wired.it il mese scorso. Donne del passato e del presente, di ogni nazionalità ed estrazione sociale. Donne che hanno studiato e si sono messe in gioco per fare la differenza – come Stephanie Shirley, nota dai colleghi come “Steve”, soprannome maschile che le ha permesso di affermarsi e ottenere meritati avanzamenti di carriera in un mondo dominato dagli uomini. Donne come Annie Easley, sviluppatrice del software dei razzi lanciatori, indispensabile per lo Shuttle e la missione Cassini. O come la prima dottorata in informatica, o ancora l’amministratrice delegata di YouTube, la sviluppatrice della rinomatissima grafica Apple, la direttrice operativa di Facebook. Cinque italiane e due astrofisiche nella lista, nell’intersezione delle due categorie c’è Viviana Acquaviva. Originaria di Lecce, laureata in fisica e PhD in astrofisica alla Sissa di Trieste, da quattordici anni lavora negli Stati Uniti e da nove a New York. È professore associato presso il dipartimento di fisica del Cuny Nyc College of Technology e Cuny Graduate Center. Sta ora scrivendo un libro di testo sulle tecniche di machine learning applicate alla ricerca fisica e astrofisica, che sarà edito da Princeton University Press. Media Inaf l’ha raggiunta a New York, al termine del suo anno sabbatico a Barcellona.

Vive e lavora negli Stati Uniti da molti anni, l’anno scorso è tornata in Europa. Le manca l’Italia in questo momento in cui si è costretti, anche volendo, a stare lontani?

«Ogni tanto accarezzo sogni di rientro in Italia, ma so che nel prossimo futuro sarà difficile. Sai, quando sei via sei sempre un po’ con il cuore sospeso. Però mio marito è egiziano, e ci siamo conosciuti qui, dove c’è anche parte della sua famiglia. L’Europa comunque mi manca, nonostante siano passati molti anni e le mie amicizie più strette qui siano con europei e italiani più che americani. L’accademia è un mondo particolare, la cattedra in un’università non è facilmente trasferibile, e comunque New York è un posto speciale dal punto di vista delle opportunità, il mio lavoro mi piace tanto e non lo cambierei. Quindi, finché siamo in una fase in cui il lavoro conta, ci dà soddisfazione e ci dà la possibilità di fare cose belle e interessanti, mi accontento di fare le vacanze in Italia e accetto di vivere con il cuore un po’ diviso».

È stata annoverata da Wired.it fra le cinquanta donne che hanno fatto (e fanno) la storia dell’informatica. Si trova tra figure molto importanti, alle quali dobbiamo la nascita dell’informatica o che hanno reso possibili molti dei sistemi, dei codici e delle tecnologie che usiamo oggi. Come si sente a essere in quella lista?

«Devo dire che un po’ mi sono chiesta: ma come le avranno assemblate? A me piace il mio lavoro, mi piace insegnare e mi piace farlo nell’università pubblica qui negli Usa. Abbiamo dato vita a un nuovo corso di laurea in fisica e io, essendo fra gli organizzatori, ho spinto tantissimo per fare dei corsi di fisica computazionale applicata. Mi sono laureata nel 2002, e ho sempre visto affermarsi nel mondo accademico quest’idea che sei fai fisica poi devi fare il dottorato, devi passare i tuoi giorni a fare conti incomprensibili alla lavagna, ma ormai credo che sia un’idea superata. In particolare qui, negli Stati Uniti, dove c’è un divario sociale molto ampio fra chi frequenta la scuola pubblica e privata: i ragazzi che si laureano nella mia università hanno bisogno di trovare lavoro, non necessariamente di essere incoraggiati a intraprendere il mio stesso percorso. Serve loro la possibilità di muoversi da un lavoro che – mentre studiano – fanno solo per pagare le bollette a uno con cui possano fare carriera. Per questo ho insistito per avere corsi obbligatori di machine learning – che è il mio campo – quantum computing, advanced computational methods, in modo che un datore di lavoro veda nel loro curriculum delle competenze pratiche spendibili, non solo teoria. Direi che questo è il mio claim to fame. Come mai Wired.it sia arrivato a questo però non ne ho idea. Due anni fa ero in una graduatoria che si chiama inspiring fifty, una collezione di donne italiane che hanno un po’ di voce nel mondo della tecnologia fatta da un’organizzazione no profit. Come ci finisci però in queste liste, penso che sia serendipitous, fortuito. Avranno forse cercato dei profili e delle storie che potessero sembrare interessanti. Accetto volentieri questo riconoscimento e non me ne vergogno, anzi sono contenta se qualcuno si sente ispirato vedendolo o pensa anche solamente che sia interessante. Ma non mi ritengo paragonabile a Joan Clarke, o a Grace Hopper».

Quindi, non crede che questo suo approccio alla ricerca scientifica e all’insegnamento possa “fare la storia” – anche solo nel senso di cambiare il modo di fare ricerca o di cambiare la visione verso un percorso di studi come quello in fisica?

«Al contrario, credo di sì. Credo nel mio tentativo di cambiare l’idea tradizionale del fisico e proporne una un po’ più moderna e funzionale, e spero anche che questo aiuti qualche donna che non si sente all’altezza di una carriera così. Però penso anche di poter agire nel mio piccolo – che il mio impatto non sarà enorme. Chissà, magari a un certo punto ci saranno cinque, dieci persone che cambieranno idea e quando arriverò alla fine della mia carriera queste persone saranno cento e basta questo – anzi è proprio questo uno dei motivi per cui il mio lavoro mi piace».

Qual è quindi la sua idea del fisico o dell’astrofisico moderno?

«La mia idea principale è che ognuno debba trovare ciò che funziona per sé. Io lavoro in ambito astrofisico ma non sono mai stata una bambina che amasse vedere le stelle. Pensavo di fare matematica fino a poco prima di iscrivermi all’università, poi ho fatto fisica, non astronomia. Quando ho dovuto decidere il tema per il dottorato, alla Sissa a Trieste, avevo la possibilità di scegliere fra astrofisica e fisica delle particelle, ho conosciuto il professor Carlo Baccigalupi, mi è piaciuto molto il suo ambito di ricerca, ma soprattutto mi è piaciuto lui come persona. Non ho avuto un percorso lineare e ho lottato per molti anni contro l’idea di non essere nata con la passione per l’astronomia. A me più che altro piacciono i metodi, i problemi, mi piace trafficare al computer, e potrei fare il fisico come il biologo marino – penso che sarei ugualmente felice. Questo per dire che la prima idea da abbandonare è quella che esista una modalità predefinita da seguire. Non devono esistere preconcetti, e il nostro dovere come insegnanti è quello di dare competenze che aprano delle porte sul mondo del lavoro. Potenziare la capacità di ragionare, il pensiero analitico, così come le competenze di programmazione. Come supervisor, dobbiamo liberarci dell’idea che se gli studenti non seguono una carriera accademica è un fallimento, e chiedere loro invece cosa desiderano fare. Quindi, non ho un’idea precisa di come il fisico debba essere, ma: non necessariamente uomo, non necessariamente vecchio, non necessariamente alla lavagna. Questi sono punti fermi».

Interessante il collegamento immediato che ha fatto fra la laurea in fisica e il mondo del lavoro. Insolito soprattutto, visto che quando uno studente si iscrive a fisica, si dà per scontato che sia mosso dal desiderio di far ricerca. Per questo spesso ci si stupisce – e un po’ anche ci si resta male, forse – quando non è così.

«È verissimo. Devo dire che, nel mio ragionamento, c’è anche la presa di coscienza di una diversità fondamentale fra Europa e Stati Uniti. In Europa – e in Italia – alcuni diritti sono garantiti, ed è quindi possibile vivere senza fare dello stipendio la primissima cosa a cui guardare. Avere il diritto alla sanità, il diritto all’istruzione per i propri figli e così via rende ancora possibile pensare che, se ti piace fare ricerca, il dottorato è la strada da percorrere. Anche se non trovo giusto che sia sempre questa la carriera da incoraggiare, perché se andiamo a confrontare il numero di posizioni permanenti disponibili nella ricerca e il numero di persone laureate, la strettoia è lampante».

Negli Usa, invece?

«Negli Usa questo aspetto è esacerbato dal fatto che alcuni diritti fondamentali non ci sono. I miei alunni in particolare, che provengono dalla scuola pubblica, non hanno alle spalle delle famiglie ricche che possano dar loro un supporto economico, e sono costretti invece a lavorare per mantenersi gli studi al college. Non gli si cambia la vita se li si incoraggia a spendere mille dollari per fare dieci application per il dottorato, al contrario bisogna far loro capire che possono andare a lavorare subito e che possono fare una bella carriera anche in data science, ad esempio.

Avevo un ragazzo bravissimo con cui ho lavorato due anni, era anche entrato a far parte di un programma a sostegno di studenti che vogliono intraprendere il dottorato. Poi, appena laureato, ha ricevuto un’offerta di apprendistato in Amazon. È venuto da me quasi in lacrime per paura di deludermi, dicendomi che non era più sicuro delle sue intenzioni. Gli ho chiesto cosa desiderasse fare, lui mi ha risposto che accettando quel lavoro avrebbe potuto aiutare suo fratello – che si pagava gli studi guidando il taxi – a finire il liceo, avrebbe comprato una casa un po’ più grande per sua madre e avrebbero potuto così vivere tutti assieme. L’ha fatto, e dopo solo un anno e mezzo è riuscito in tutte queste cose. Poi, gli ho detto, se rimane la passione per la ricerca, nulla vieta che fra qualche anno tu possa ripensarci e riprovare. Ma come si può incoraggiare una carriera accademica quando ogni giorno ti scontri con situazioni di questo tipo? È già sbagliato in principio secondo me – nella realtà in cui lavoro io sarebbe davvero un consiglio miope. Bisogna capire le necessità dei nostri studenti, e su questo c’è ancora un bel po’ di lavoro da fare».

Wired.it scrive che lei sta scrivendo un libro. Di cosa si tratta?

«È un libro di testo. All’università tengo un corso di machine learning for physics and astronomy, l’ho fatto circa cinque volte. I metodi usati sono gli stessi che si trovano su tanti libri e corsi online – ne ho fatti tanti anche io per imparare, l’ultimo l’anno scorso. Quando si affrontano questi corsi dal punto di vista del computazionale, però, l’approccio è molto tecnico. Invece, se si fa scienza, la cosa importante è capire come integrare il metodo scientifico con la tecnica: capire quali variabili sono importanti, sviluppare la capacità di decidere il metodo giusto per affrontare un certo tipo di problema, e questo non c’è nei corsi online. Il materiale l’ho messo insieme grazie all’esperienza accumulata durante l’insegnamento – e raccogliendo una serie di casi scientifici simili a quelli che si possono incontrare ogni giorno nella ricerca. Inoltre, ho pensato che a me avrebbe fatto molto comodo avere un libro di testo per imparare. L’anno scorso ho potuto prendere un anno sabbatico, che abbiamo trascorso – con mio marito e mia figlia – a Barcellona, e l’idea di questo libro è stata accolta molto positivamente dalla casa editrice Princeton University Press».

Chi è il destinatario principale, i suoi studenti?

«Sai, gli studenti sono giovani e resilienti, hanno meno problemi a imparare anche se devono raccogliere e cercare materiale da diverse fonti. I professori che insegnano nei dipartimenti di fisica e astronomia invece, che dovranno – se non l’hanno già fatto – iniziare ad avvicinarsi a questa materia e insegnare il machine learning nei loro corsi perché sta diventando sempre più importante, ecco, per loro avere una fonte unica e completa come può essere questo libro di testo, comprensivo di notebook, review questions, slides ed esami, e corredato anche di una serie di esempi pratici strutturati come piccoli progetti di ricerca basati su dati e cataloghi che sto preparando – avere questo libro, dicevo, magari li aiuta. Non solo, spero faciliti anche il processo per renderla una materia fruibile – anche se noi docenti non l’abbiamo studiata nel nostro corso di studi. Allo stesso modo, è un libro che può essere utile anche a dottorandi e postdoc che vogliano imparare da soli nuovi metodi per affrontare la loro ricerca».

Quando uscirà il suo libro?

«Ho parlato proprio ieri con il mio editore, finirò di scriverlo a febbraio e spero che venga pubblicato fra un anno circa. Spero anche che diventi un living document».

Quali sono i limiti del machine learning – se ce ne sono – secondo lei?

«Direi che ce ne sono due, uno più grande dell’altro. Innanzitutto, c’è da dire che il machine learning non è nulla di magico. Ai miei tempi si studiava un librone che si chiamava Numerical Recipes – con un sacco di algebra lineare – e si può pensare al machine learning come a una sua evoluzione moderna. Si tratta di un metodo, e in quanto tale il pericolo peggiore riguarda la qualità della scienza che viene prodotta con esso, il fatto che possa venire applicato in modo cieco, ottuso. È un rischio concreto, perché si tratta di metodi forse un po’ più complicati, meno trasparenti rispetto ai modelli analitici, ad esempio, e pertanto più soggetti a interpretazioni sbagliate. Negli ultimi cinque, forse dieci anni c’è stata una corsa a pubblicare articoli che impiegassero il machine learning ed era molto facile che questi venissero accettati – conseguenza anche della nostra limitata capacità di fare delle revisioni critiche. Siamo stati forse un po’ frettolosi e faciloni nel pubblicare, mentre dobbiamo avere più consapevolezza ed essere più cauti: lo stesso rigore che mettiamo nel revisionare un qualunque lavoro scientifico deve essere impiegato nei lavori che usano il machine learning, dobbiamo fare uno sforzo maggiore nel capire bene e valutare i metodi usati».

Il secondo?

«Il secondo riguarda i cosiddetti “ethical biases”, ed è molto più importante, perché riguarda la società nel complesso e non la piccola comunità degli astrofisici. Riguarda il fatto che così come si possono fare tante cose bellissime con il machine learning – come early detection of diseases, o studiare le malattie rare, rendere delle risorse accessibii o ottimizzarne la distribuzione, come nel caso dell’acqua, l’elettricità, l’energia e occuparci così del problema gravissimo dei cambiamenti climatici – se ne possono fare altrettante di pericolosissime. Sto pensando ai deepfake, al tramandare e incrementare pregiudizi di razza, di genere – e tutto questo avviene in assenza di regolamentazioni precise. Ancora una volta, se l’Europa da questo punto di vista tende ad avere una mano un po’ più stretta, non è lo stesso negli Stati Uniti. E siccome il mondo della tecnologia e dell’informatica si muove molto velocemente, è difficile per le regolamentazioni stare al passo».

Può fare un esempio positivo?

«Le malattie rare. Se nasce un bambino con una patologia genetica di questo tipo, prima era difficilissimo avere la possibilità che fosse curato – nessuno vuole investire per curare tre persone nel mondo. Ma se si riesce a studiare come una combinazione così rara si connette, ad esempio, a quella di un altro ceppo, e poi un altro e uno ancora – ed è questo che fa il machine learning – allora all’improvviso questa malattia diventa una cosa nota e che si può studiare. Quindi, non voglio cedere al pessimismo, ma penso che sia importantissimo costruire delle regole e che spetti a noi esperti – che siamo ancora in pochi – mettersi in gioco e insegnare queste cose».

Lei pensa che esistano delle categorie lavorative a rischio rispetto alla diffusione delle tecniche di machine learning?

«È una buona domanda. Rispondo per quel che riguarda il mondo della ricerca, perché è l’unico per il quale mi sento di poter dare una risposta motivata: non credo sia una cosa negativa. I compiti per cui facciamo l’automazione con il machine learning sono tipicamente cose lunghe e noiose – e questo non potrà mai sostituire il pensiero creativo. Per fare un esempio, prima per cercare una supernova bisognava guardarsi diecimila immagini, oppure passare giornate a controllare cataloghi per cercare possibili contaminanti. Direi che se automatizziamo queste operazioni non perdiamo niente, non sono attività che danno soddisfazione né danno un valore aggiunto. Nella ricerca direi quindi di no, è il ricercatore che decide il metodo da usare e studia come implementarlo. Fuori dal mondo della ricerca invece non saprei, non vorrei dare una risposta superficiale ma penso che sia possibile. Immagino che esistano delle figure professionali che possono essere sostituite – come avvenuto con la rivoluzione industriale. E penso che questo possa costituire un rischio soprattutto per coloro che hanno difficoltà a reinventarsi e trovare un nuovo lavoro, soprattutto se quasi al termine della loro carriera lavorativa. Non so quale possa essere il bilancio fra questi e le nuove professionalità che si creano – che però, mi rendo conto, non sono accessibili facilmente a coloro che vedono il proprio lavoro diminuito».

Tornando ancora alla ricerca, pensa che la diffusione di nuove e brillanti prospettive di carriera legate al machine learning possa allontanare menti dalla ricerca?

«Forse. Ma ben venga, la vedo come una cosa molto positiva. La vedo come un’occasione per il mondo accademico per rendersi conto che il personale, soprattutto i precari, devono essere trattati meglio. Sono persone molto intelligenti, con competenze avanzate e rare e possono spendersi benissimo al di fuori della scienza. Penso sia un limite della nostra cultura pensare che se un lavoro piace, allora non è lavoro. Le ore spese su un progetto, su un proposal, sono fatica e tempo, e dobbiamo far sì che i ricercatori si rendano conto che il loro tempo ha valore, e hanno il diritto di avere la possibilità di valorizzarsi e intraprendere carriere remunerative e soddisfacenti – che consentano loro un miglior bilancio fra lavoro e vita. Questo è un aspetto sul quale l’accademia ha molto da imparare».

Mi diceva che ha una figlia di quattro anni. Insegna anche a lei il modo corretto per approcciarsi all’informatica e imparare a usarla?

«È molto bello vedere come imparano i bambini. Io ho ricevuto un’educazione molto tradizionale: mia mamma è una matematica, così come mia nonna, e ogni pasto a tavola era accompagnato da domande di matematica – come potresti calcolare questo o quest’altro? Per carità, io ero una bambina a cui piaceva imparare e studiare, ero un po’ solitaria. Invece mia figlia è molto più dinamica. Quando c’è stato il lockdown eravamo a Barcellona e per moltissimi giorni siamo rimasti sempre dentro casa. Lei aveva appena compiuto quattro anni, e ha cominciato a interessarle moltissimo leggere e scrivere: se ne andava in giro per tutta casa con questa lavagnetta a scrivere paroline tutto il giorno. Quando siamo potuti uscire di nuovo, ha smesso e ora non ne vuol più sapere – magari sta imparando altre cose. La mia sfida con lei è liberarmi di quello che funzionava con me, delle cose che piaceva fare a me e incoraggiare la sua curiosità naturale. Però una cosa che faccio sempre è leggerle molte storie – le 50 donne che hanno avuto successo nella scienza le piace molto, per esempio – e lei sta trovando così anche i suoi idoli ed esempi. L’unico messaggio che cerco sempre di darle è che può fare quello che vuole, che non deve farsi bloccare o limitare da alcune idee o preconcetti. Mi sembra una bambina felice, più di questo non posso chiedere».

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