Nei due inserti è mostrata l’immagine in banda ottica ottenuta con Hubble da H. Dahle et al., adattata da E. Vanzella in scala di colori blu. In basso a destra è mostrato uno degli archi contenenti sei immagini multiple (indicate con le frecce) dell’ammasso stellare, e nell’inserto in alto lo zoom di una di queste repliche. Il raggio dell’ammasso è inferiore a 60 anni luce e ha una massa di qualche milione di masse solari. Crediti per l’immagine di sfondo: Ipoenk Graphic/Flickr

Qualche giorno fa avevamo dato notizia, qui su Media Inaf, di uno studio pubblicato su Science relativo a una lontana galassia osservata con il telescopio spaziale Hubble grazie a una lente gravitazionale. Oltre a causare una spettacolare deformazione – tale da replicare la galassia per 12 volte lungo un arco, da cui il nome Sunburst Arc – l’effetto amplificante della lente gravitazionale, dovuto a un ammasso di galassie presente lungo la linea di vista, ha permesso agli autori dello studio di cogliere dettagli altrimenti impensabili per un oggetto così distante ­– parliamo di circa 11 miliardi di anni luce dalla Terra. La risoluzione così raggiunta ha consentito di intravedere indizi della fuoriuscita di fotoni ad alta energia attraverso una sorta di stretti canali di passaggio “scavati” nel gas non ancora ionizzato. Una scoperta di notevole importanza per chi cerca di comprendere i meccanismi che hanno determinato la fine delle dark ages – l’epoca oscura dell’universo – per mezzo di una transizione cruciale denominata reionizzazione.

Ma da cosa sono prodotti questi fotoni ionizzanti, così energetici da strappare all’idrogeno il suo unico elettrone? In altre parole: chi è il colpevole, la “talpa” responsabile di quei cunicoli ionizzati che bucano il gas neutro – e dunque opaco – dell’antica galassia? La risposta l’avevamo in casa senza saperlo. Nel senso che era stata pubblicata in un articolo – uscito, un po’ in sordina, l’agosto scorso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society – firmato da numerosi ricercatori italiani, molti dei quali dell’Istituto nazionale di astrofisica. Ed è una risposta che da sola vale due risultati scientifici: la “talpa” è infatti risultata essere un ammasso stellare (primo risultato), e questo ammasso stellare è il più lontano, a oggi noto, di cui sia stata data conferma (secondo risultato) che si tratti, effettivamente, di un ammasso.

«Siamo riusciti a dire con certezza che si tratta proprio di un ammasso stellare grazie all’eccezionalità del Sunburst Arc, questo strepitoso oggetto amplificato dal lensing gravitazionale», spiega a Media Inaf il primo autore dell’articolo, Eros Vanzella dell’Inaf di Bologna. «L’ingrandimento introdotto dall’effetto lente ci ha infatti permesso di quantificare quanto l’ammasso sia gravitazionalmente legato, nel senso che è proprio una struttura a sé stante, molto piccola, simile agli ammassi giovani locali. Ed è la prima conferma dell’esistenza di un ammasso stellare a distanza cosmologica».

Per giungere a questo difficile risultato, oltre alle immagini del telescopio spaziale Hubble il team guidato da Vanzella ha chiesto – e ottenuto –  tempo osservativo al Very Large Telescope dell’Eso, in Cile, con gli spettrografi X-Shooter e Muse. La combinazione di immagini ad alta risoluzione e spettri ha consentito di raccogliere tutti gli indizi necessari a tracciare l’identikit della “talpa”: la luminosità in ultravioletto indica che si tratta di un insieme di qualche milione di stelle, la firma spettrale indica che sono stelle giovani e massicce, e il fatto che sia anche un oggetto non effimero – non destinato a dissolversi – lo si deduce dalla cosiddetta “età dinamica”. Mettendo tutti questi indizi insieme, Vanzella e colleghi sono arrivati a stabilire che l’agglomerato dal quale fuoriescono i fotoni che hanno scavato i canali – una “palla” più piccola di 60 anni luce di diametro – è al di là di ogni ragionevole dubbio, appunto, un ammasso stellare.

Eros Vanzella, ricercatore all’Inaf di Bologna, indica una delle immagini – ingrandite e replicate dalla lente gravitazionale – dell’ammasso stellare analizzato nello studio da lui guidato. Fra quelli confermati, è a oggi l’ammasso stellare più distante. Crediti: M. Malaspina/Media Inaf

«Ed è proprio questo ammasso che è riuscito a “perforare” il mezzo interstellare della galassia stessa», dice Vanzella, «e quindi a trasportare fotoni fino al mezzo intergalattico. Fotoni con un’energia superiore ai 13.6 eV, il valore necessario per ionizzare gli atomi d’idrogeno.

L’ammasso osservato, per quanto sia il più antico mai confermato (risale a quando l’universo aveva circa 3 miliardi di anni), si colloca in un’epoca abbondantemente successiva a quella della reionizzazione, il cui inizio è datato attorno alle prime centinaia di milioni di anni dopo il big bang.  Ma per le sue caratteristiche può essere considerato un valido analogo – questo il temine che usano gli scienziati – di ammassi risalenti al primo miliardo di anni di vita dell’universo, ed è per questo motivo che il processo osservato sta destando profondo interesse fra chi si occupa di reionizzazione. E se gli autori del paper su Science si premurano di sottolineare come i “canali” da soli possano sì aver contribuito alla reionizzazione dell’universo, ma difficilmente esserne gli unici artefici, va anche sottolineato che questo è solo il primo scoperto: come lui potrebbero essercene molti altri.

«Altri studi lasciano supporre che il numero di ammassi stellari a redshift più elevato sia molto maggiore, che cresca andando indietro nel tempo», osserva a questo proposito Vanzella. «Quindi se questo oggetto è un primo esempio – per ora il solo – di un ammasso stellare in grado di compiere parte di un lavoro che qualcuno deve comunque aver compiuto, è legittimo ipotizzare che questi oggetti possano aver giocato un ruolo significativo nella reionizzazione».

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