Una stella brillante di età paragonabile a quella del Sole, una superTerra in orbita interna e – a perturbare il sistema – una nana bruna in un’orbita esterna estremamente eccentrica e inclinata. È questo l’identikit del sistema planetario per cui è stata risolta per la prima volta l’architettura tridimensionale. Lo racconta a Media Inaf il primo autore dello studio, Mario Damasso dell’Inaf di Torino
«E alla fine abbiamo dovuto citare noi il loro lavoro e non viceversa…». Quando sei a meno di una settimana dalla pubblicazione del primo lavoro che descrive la completa architettura tridimensionale di un sistema planetario fra i più interessanti – per coloro che di esopianeti se ne intendono – e ti accorgi che un altro gruppo di ricerca ha appena pubblicato uno studio esattamente analogo sullo stesso sistema, non è da tutti reagire in modo sportivo. E invece è proprio così che va la scienza. Il merito, in ogni caso, non è solo di chi il lavoro è riuscito a pubblicarlo prima, ma anche di chi, con atteggiamento esemplare, aggiunge una nota a fine articolo che racconta il fatto, ammettendo di essere arrivato secondo per un soffio e, appunto, citando il lavoro della concorrenza.
Protagonista della vicenda è il ricercatore dell’Inaf Mario Damasso. Apolide – così ama definirsi –, dopo la laurea in fisica presso l’università Roma Tre ha frequentato un master in comunicazione della scienza per inseguire il sogno di condurre una trasmissione scientifica in radio. In un percorso alla Rocco Schiavone, partendo proprio dallo stesso quartiere romano del celebre commissario di Antonio Manzini, Damasso si è trasferito in Valle d’Aosta per intraprendere il dottorato di ricerca, con il progetto di costruire cinque piccoli telescopi per rivelare pianeti extrasolari. Lavora oggi come ricercatore postdoc nella sede Inaf di Torino, e continua a occuparsi principalmente di esopianeti assieme al collega Alessandro Sozzetti, secondo autore dello studio in questione, in uscita su Astronomy & Astrophysics.
«Pi Mensae è stato uno dei primi casi di studio proposto dopo la messa in opera di Espresso», introduce Damasso, parlando dello spettrografo ultra-stabile ad altissima risoluzione – Espresso, appunto – formalmente entrato in funzione presso il Vlt alla fine dell’estate del 2018. «Questa stella era diventata così interessante, nel campo degli studi esoplanetari, a seguito dell’identificazione di un transito planetario da parte del telescopio spaziale Tess. Si tratta della superterra Pi Men c, in orbita con un periodo di circa sei giorni e in compagnia di un altro corpo substellare – di cui al tempo non si conosceva la massa vera – chiamato Pi Men b, precedentemente scoperto mediante la tecnica delle velocità radiali. Nel caso di superterre come Pi Men c, una volta noto – mediante lo studio del transito – il raggio, diventa fondamentale misurare la massa per via spettroscopica, al fine di stimarne la densità media. Queste informazioni sono necessarie per la messa a punto di osservazioni spettrofotometriche volte a studiarne l’atmosfera».
Come è stata proposta l’osservazione di questo caso scientifico?
«All’interno della collaborazione Espresso, divisa per gruppi di lavoro, una parte del tempo osservativo garantito è dedicata proprio al follow-up spettroscopico di stelle osservate da Tess. La stella Pi Mensae, inoltre, è molto brillante, sulla soglia della visibilità a occhio nudo, il che la rende un target ghiottissimo per Espresso. Uno dei tratti caratteristici del nostro lavoro è stato infatti che, nonostante il numero relativamente ridotto di notti (abbiamo preso quasi 300 spettri, a gruppi di circa dieci per notte), abbiamo ottenenuto un’incertezza sulle misure di velocità radiale di 10 cm/s. È un numero davvero rilevante – per dare l’idea, equivale circa all’ampiezza del segnale Doppler indotto dalla Terra sul Sole – e la qualità di queste misure è quello che contraddistingue il nostro lavoro e lo spettrografo Espresso rispetto agli altri. Stimare la massa vera della superterra individuata da Tess con la precisione garantita da Espresso era l’obiettivo primario del nostro studio».
Nel vostro studio si mette molto l’accento anche sulla caratterizzazione dell’architettura 3D del sistema di Pi Mensae. Che cosa significa?
«Qui entra in gioco il mio collega, Alessandro Sozzetti, esperto di astrometria. Lui ha avuto l’idea – e non è stato l’unico: racconterò in seguito la vicenda che ha vissuto questo articolo proprio pochi giorni prima della sua pubblicazione – di utilizzare, oltre a velocità radiali e transiti, anche i moti propri misurati con tecniche astrometriche dalle missioni spaziali Hypparcos e Gaia. Combinando, in una prospettiva multi-tecnica, le informazioni diverse e complementari ricavate da questi tre metodi, abbiamo potuto risolvere la cosiddetta “architettura 3D”. Con questa terminologia si intende la caratterizzazione completa di un sistema planetario, misurando l’angolo di inclinazione dell’orbita del corpo esterno e l’angolo di inclinazione relativo tra i piani orbitali dei compagni b e c, incognite ultime del problema».
In che senso?
«Quando un pianeta transita, come nel caso della superterra Pi Men c, è possibile stimare immediatamente l’angolo di inclinazione del piano orbitale – praticamente un angolo retto. Ma se non transita, come nel caso del corpo più esterno Pi Men b, rimane un’incognita. La novità di questo approccio multitecnica, che include anche l’astrometria, è stata proprio la misura di questi angoli. Questo ci consente anche di stimare un altro importante parametro: avendo l’inclinazione del piano orbitale e la massa minima del corpo – misurata per Pi Men b grazie alle velocità radiali – si può ottenere la “massa vera”».
Qual è la differenza fra le due?
«La massa minima – stimata sia da lavori precedenti al nostro sia da noi, anche grazie a Espresso – è una grandezza fisica che lega la massa del corpo orbitante e l’angolo d’inclinazione del piano orbitale, e si può calcolare mediante la tecnica delle velocità radiali. Nel caso di Pi Men b, essa vale circa 10 volte la massa di Giove. La massa vera, che si ottiene eliminando il legame con l’angolo, è invece intorno alle 14 masse gioviane. Dal momento che qualunque corpo più massiccio di 13 masse gioviane rientra nella categoria delle nane brune, abbiamo potuto attribuire questa identità precisa al compagno esterno del sistema».
A tal proposito, nel vostro articolo si parla di “deserto delle nane brune”. Di cosa si tratta?
«Si tratta di una constatazione che viene da anni di osservazioni. Rende conto del fatto che sono state trovate poche nane brune in un’orbita relativamente vicina – poche unità astronomiche – attorno alla propria stella. Probabilmente le poche che sono state trovate così vicine non si sono formate lì, ma sono migrate vicino alla stella, forse anche a causa di fenomeni d’interazione turbolenti. Nel caso di Pi Mensae, il fatto che la nana bruna orbiti attorno a una stella di circa quattro miliardi e mezzo di anni e abbia un’eccentricità così elevata è un indizio – dato che le orbite, nel tempo, tendono a circolarizzarsi – d’una storia evolutiva del sistema piuttosto turbolenta. Le nuove scoperte di Kepler e Tess stanno comunque rendendo un po’ meno arido di quanto si pensasse questo deserto. Quindi forse bisognava solo aspettare di raccogliere una statistica maggiore».
Quant’era, poi, l’angolo di inclinazione?
«L’angolo di inclinazione dell’orbita della nana bruna è circa 45 gradi. Il che dimostra che i due corpi orbitanti attorno alla stella Pi Mensae sono molto disallineati. Anche questo è un elemento estremamente interessante».
Perché?
«Perché vuol dire che il sistema, dal punto di vista della dinamica orbitale e della sua formazione, è estremamente peculiare. Questo disallineamento genera infatti delle forti perturbazioni. L’eccentricità dell’orbita della nana bruna, inoltre, è di 0.6: molto elevata. Se consideriamo che essa orbita a distanza di poche unità astronomica dalla stella, si deduce che il sistema si sia formato ed evoluto in maniera molto turbolenta. Qui però mi devo fermare, e devo citare l’altro lavoro che avevo introdotto prima. Nello studio, infatti, gli autori trattano anche aspetti legati all’evoluzione dinamica.»
L’altro lavoro, diciamolo, è quello in uscita su Mnras firmato da Jerry Xuan e Mark Wyatt. Che differenze ci sono rispetto al vostro?
«Il loro lavoro è un po’ più teorico del nostro. Non hanno utilizzato dati nuovi, ma hanno raccolto tutto ciò che era disponibile in letteratura sul sistema Pi Mensae per fare uno studio del tutto analogo al nostro: velocità radiali, fotometria e astrometria d’archivio combinate hanno permesso loro di giungere a conclusioni davvero simili alle nostre. Hanno descritto l’architettura tridimensionale del sistema trovando risultati del tutto paragonabili. Loro si sono però concentrati maggiormente sull’evoluzione dinamica, prevedendo delle cose interessanti. Lo studio dinamico ha rivelato che Pi Mensae potrebbe essere uno dei primissimi casi osservati in cui un corpo esterno con orbita molto eccentrica e inclinata perturba il suo compagno interno. Il risultato in futuro – così come probabilmente successo in passato – sarà una variazione nell’inclinazione dell’orbita della superterra interna, rendendo invisibile il transito sulla stella da Terra».
A questo punto, devo fare una domanda provocatoria. Se Xuan e Wyatt, con dati d’archivio, hanno raggiunto risultati molto simili ai vostri, perché è stato così importante usare Espresso?
«Torno al nostro scopo iniziale, ciò che ci aveva spinti a osservare Pi Mensae. La cosa interessante che è emersa da questo lavoro – limitatamente alle velocità radiali – è l’estrema precisione di Espresso sulle barre d’errore, attualmente ineguagliata. Rispetto alle misure d’archivio c’è un guadagno di circa tre volte. Questo si concretizza nel fatto che, con meno di quaranta notti sparse in circa 200 giorni, il periodogramma del sistema – una volta eliminata la perturbazione provocata dalla presenza della nana bruna – mostra un picco molto chiaro, corrispondente al periodo orbitale della superterra. Detta in altri termini, se la superterra non fosse stata scoperta in transito, con i dati di Espresso si sarebbe potuta trovare in maniera chiara con la tecnica delle velocità radiali. Nella realtà è invece stato fatto il contrario, poiché le velocità radiali in archivio non avevano un rapporto segnale/rumore sufficiente a ottenere una rivelazione statisticamente significativa e sono state riviste solo a posteriori per estrarre il segnale al periodo orbitale misurato con i transiti. Inoltre, nell’articolo si dimostra anche che Rispetto alle misure d’archivio c’è un guadagno di circa tre volte».
Nell’articolo si dice che questo studio presenta la prima caratterizzazione dell’architettura 3D del sistema Pi Men. Rimane vero, alla luce del lavoro pubblicato poco prima del vostro?
«L’idea di usare le tre tecniche insieme esisteva già, così come la possibilità di utilizzarle per risolvere l’architettura del sistema. Essendo arrivati secondi con l’articolo, in leggero ritardo rispetto ai colleghi dell’altro gruppo, in fase di revisione ho inserito una nota alla fine dell’articolo per denunciare il fatto che siamo venuti a conoscenza di questo lavoro a cose fatte. Può succedere, quando c’è competizione per un target molto interessante come Pi Mensae, che dispone di molti dati d’archivio disponibili. Il peso del nostro articolo, comunque, sta nei risvolti futuri per la caratterizzazione di pianeti di tipo superterra simili a Pi Men c con Espresso. Lo studio dei colleghi, considerando la provvisorietà dell’osservazione diretta del transito del pianeta, avvalora ulteriormente questo aspetto. A due anni dall’inizio delle attività di Espresso, possiamo dire che le aspettative che vi erano sul suo conto si stanno concretizzando.»
Direi che comunque l’hai presa bene, questa incredibile coincidenza…
«Mi è sembrato giusto così, e trovo interessante citare anche questi aspetti del lavoro. C’è stata questa concomitanza del tutto inattesa – ti dico, meno di una settimana fra la loro pubblicazione e la nostra. A prescindere dal fatto che sia stato pubblicato uno studio analogo a meno di una settimana dalla nostra pubblicazione (entrambi ci stavamo comunque lavorando da mesi), la caratterizzazione del sistema che abbiamo fatto è assolutamente una novità. Naturalmente la nostra ricerca viene in qualche modo completata dal lavoro dell’altro team, che ritengo essere un lavoro complementare. Un’altra caratteristica fondamentale e unica del nostro lavoro è stata la dimostrazione delle performance di Espresso in termini di velocità radiale per un target brillante. A tal proposito, c’è un’altra cosa del tutto inedita che ti voglio raccontare».
Quale?
«In appendice all’articolo ho aggiunto una piccola sezione che descrive il fatto che, utilizzando i soli dati di Espresso e dopo aver rimosso i segnali dei due corpi noti, rimane un residuo periodico a circa 190 giorni. Non possiamo assolutamente concludere che sia un ulteriore pianeta, sebbene il segnale risulti ai nostri occhi statisticamente robusto. Ci sono alcuni fenomeni fisici che possono creare dei falsi positivi, prima fra tutte l’attività stellare, ma per ora non abbiamo elementi sufficienti. Se fosse un pianeta dovremmo fare un’indagine di stabilità dinamica, poiché esso si collocherebbe in una regione interposta fra la superterra e la nana bruna, la cui stabilità orbitale è tutta da valutare. Questo è un buon elemento da tener presente per osservazioni future».
Per saperne di più:
Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Astronomy & Astrophyisics “A precise architecture characterization of the π Men planetary system”, di M. Damasso, A. Sozzetti et al.
Leggi l’articolo completo su MEDIA INAF: Pi Mensae, un sistema planetario formato Espresso