La presenza di forme di vita intelligenti nell’universo potrebbe essere meno improbabile di quel che si pensa. Lo suggerisce un articolo pubblicato su Science Advances. Lo studio propone un nuovo modello per spiegare l’evoluzione della vita complessa, alternativo alla teoria dei “passaggi difficili” di Brandon Carter, secondo cui l’umanità potrebbe essere il risultato di un processo evolutivo che ha interessato il nostro e forse molti altri pianeti
Giuseppe Fiasconaro 19/02/2025
C’è la possibilità che emergano o siano emerse forme di vita intelligenti nell’universo? Per il fisico teorico australiano Brandon Carter la risposta è che sia un evento estremamente improbabile. Il motivo di questa bassa probabilità, secondo lo scienziato, è legato ai lunghi tempi scala necessari per la loro evoluzione rispetto alla durata media della fase di sequenza principale delle stelle. Una riflessione, questa, che nel 1983 lo ha portato a formulare il modello dei passaggi difficili (hard steps model, in inglese). Secondo questo modello, lo sviluppo di forme di vita complesse prevede il superamento di una serie di passaggi cosiddetti “difficili”. Ciascuno di questi passaggi è un collo di bottiglia evolutivo, e solo il loro completamento sequenziale porta allo sviluppo di forme di vita intelligenti e autocoscienti. Più sono i passaggi difficili, più tempo occorre affinché la vita intelligente emerga.

Considerato il numero di passaggi che l’essere umano ha dovuto superare per evolversi – l’origine della vita, la fotosintesi, l’evoluzione degli eucarioti, eccetera – e considerato il tempo impiegato dagli esseri umani per farlo rispetto alla durata totale della vita del Sole, lo scienziato ipotizzò che la nostra origine evolutiva fosse improbabile e che esseri simili agli umani al di là della Terra siano rari.
Per arrivare a concepire questo modello, Carter ha considerato due diverse scale temporali: la comparsa dell’uomo sulla Terra (circa cinque milioni di anni fa) e la durata stimata della vita del Sole nella sua fase di sequenza principale (dieci miliardi di anni), corrispondente alla finestra di abitabilità della Terra. Lo scienziato ha quindi valutato tre diverse possibilità che collegano queste due scale temporali con il tempo medio di evoluzione della vita intelligente. La prima possibilità è che il tempo medio richiesto per far evolvere specie intelligenti sia strettamente minore della durata stimata della vita del Sole nella sequenza principale. La seconda è che il tempo richiesto per l’evoluzione sia uguale alla suddetta durata. La terza, infine, che il tempo medio di evoluzione sia strettamente maggiore.
Carter scarta la prima ipotesi in quanto ritiene che se fosse vera dovremmo trovarci su una Terra molto più giovane. La Terra, cioè, avrebbe dovuto popolarsi di umani miliardi di anni fa. Scarta anche la seconda ipotesi definendola poco probabile a priori. Secondo lo scienziato, infatti, questa ipotesi andrebbe presa in considerazione solo se fossero emerse prove convincenti a posteriori contro le altre due possibilità. Per Carter l’ipotesi più plausibile è la terza. Le conclusioni a cui giunge seguendo questo ragionamento sono due. La prima conclusione è che il tempo medio per l’evoluzione della vita intelligente su un pianeta abitabile supera di gran lunga la durata della vita della sua stella. La seconda, che è una conseguenza della prima, è che era intrinsecamente improbabile che la nostra origine evolutiva avvenisse entro il tempo di vita della nostra stella, con il corollario che forme di intelligenti analoghe oltre la Terra sarebbero ugualmente improbabili.
Per spiegare perché è così improbabile che forme di vita intelligenti si evolvano entro la durata della vita media della sequenza principale di una stella, lo scienziato ha introdotto i già citati passaggi difficili. Poiché, secondo Carter, il tempo di vita del Sole nella sequenza principale può essere conciliato al più con due di questi passaggi, la sua idea è che l’evoluzione degli esseri umani sulla Terra sia dipeso da eventi casuali. Insomma, secondo il modello di Carter la Terra sarebbe un pianeta straordinariamente raro, forse l’unico a essere riuscito a superare tutti i passaggi prima di diventare inabitabile.
Un team multidisciplinare di scienziati guidati dalla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco (Germania) e dalla Penn State (Usa) mette ora in discussione questo modello. Lo fa considerando l’evoluzione della vita complessa sotto l’aspetto della geobiologia storica, cioè lo studio di come l’ambiente superficiale della Terra e la vita si sono co-evoluti nel tempo geologico.
Pubblicata la settimana scorsa sulle pagine della rivista Science Advances, la nuova ricerca propone che la tempistica delle origini umane possa essere spiegata dall’apertura sequenziale di “finestre di abitabilità” nel corso della storia della Terra, guidata da cambiamenti nella disponibilità di nutrienti, nella temperatura della superficie del mare, nei livelli di salinità degli oceani e nelle quantità di ossigeno nell’atmosfera. Secondo questo nuovo modello, i passaggi evolutivi che hanno portato all’emergere della vita intelligente sono diventati possibili solo quando l’ambiente globale ha raggiunto uno stato “permissivo”. Il fatto che la Terra sia diventata ospitale per l’umanità solo di recente è il risultato naturale di queste condizioni all’opera. Poco c’entrerebbe, dunque, il caso.
«Riteniamo che la vita intelligente potrebbe non aver avuto bisogno di una serie di colpi di fortuna per esistere», spiega Dan Mills, ricercatore alla Ludwig-Maximilians-Universität e primo autore dello studio. «Gli esseri umani non si sono evoluti presto o tardi nella storia della Terra, ma “in tempo”, quando le condizioni lo hanno permesso. Alcuni pianeti potrebbero essere in grado di raggiungere queste condizioni più rapidamente della Terra, altri potrebbero impiegare più tempo».
Contrariamente a quanto ipotizzato da Carter, gli autori del nuovo studio propongono che l’evoluzione della vita complessa non debba essere studiata considerando la vita del Sole nella sequenza principale. In questo senso, la presenza di forme di vite complesse sulla Terra e oltre potrebbe essere non una questione di fortuna ma di interazione tra la vita e il suo ambiente.
«Sosteniamo che, anziché basare le nostre previsioni sulla durata della vita del Sole, dovremmo usare una scala temporale geologica, perché è il tempo che impiega l’atmosfera e il paesaggio a cambiare», dice a questo proposito Jason Wright, ricercatore alla Penn State e coautore della pubblicazione. «Se la vita si è evoluta con il pianeta, allora si evolverà su una scala temporale planetaria, a un ritmo planetario»
Il nuovo modello non prevede neanche il superamento di passaggi difficili. Secondo i ricercatori, infatti, il ritmo generale dell’evoluzione della vita intelligente sulla Terra sarebbe stabilito da processi ambientali. Tali processi avrebbero fatto sì che la vita complessa emergesse così “tardi” nella storia del nostro pianeta perché la finestra di abitabilità si è aperta solo relativamente di recente. In questo senso, la storia della biosfera potrebbe essersi svolta in modo più deterministico di quanto generalmente si pensi, con innovazioni evolutive limitate a finestre temporali in cui le condizioni erano globalmente favorevoli.
«Questa nuova prospettiva suggerisce che l’emergere della vita intelligente potrebbe non essere poi così improbabile», conclude Wright. «Invece di una serie di eventi improbabili, l’evoluzione potrebbe essere un processo più prevedibile, che si svolge non appena le condizioni globali lo consentono. Il nostro quadro si applica non solo alla Terra, ma anche ad altri pianeti, aumentando la possibilità che una vita simile alla nostra possa esistere altrove».
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “A reassessment of the “hard-steps” model for the evolution of intelligent life” di Daniel B. Mills, Jennifer L. Macalady, Adam Frank e Jason T. Wright